La cura del bambino
autistico secondo Martin Egge
Fabio Brotto
Martin Egge, la cura del bambino autistico, Astrolabio-Ubaldini 2006. Un libro importante per questo:
fa vedere con chiarezza come la psicoanalisi abbia costituito
per decenni un ostacolo ad una comprensione reale, fondata su dati
scientificamente accertati e su evidenze sperimentali, della sindrome
autistica. Se c’è qualcosa di sicuro oggi nelle conoscenze sull’autismo è il fatto che la sua origine è neurobiologica, non
relazionale, e che l’autismo non è una
psicosi. Invece, nelle conclusioni del libro di Egge, che con un'interessante forma di rimozione ignora
tutto ciò che negli ultimi anni hanno fornito le tecniche delle neuroscienze,
si legge (p. 201): “La cura del bambino
autistico affronta la più precoce e arcaica forma delle psicosi
infantili: l’autismo”. Autismo come psicosi, dunque, ancora
e sempre! Siamo quindi, con Egge, nella sostanza, ad
una sottile forma di colpevolizzazione della famiglia. Un
libro che esprime una razionalità pervertita, che si ostina a chiudere gli
occhi di fronte alla realtà, da leggere proprio per questo.
In un momento in cui l’approccio psicodimamico
all’autismo si è rivelato improduttivo e fondato su presupposti erronei, Egge contesta tutti i principali punti fermi della corrente
principale della scienza ufficiale contemporanea. A cominciare dalle
classificazioni. Con affermazioni sorprendenti come quella a
pag. 24. “Con l’introduzione delle classificazioni internazionali DSM IV
e ICD 10, basate su una descrizione comportamentale dei fenomeni clinici e la
larga diffusione di terapie cognitivo-comportamentali,
soprattutto negli Stati Uniti, si assiste negli ultimi 15 anni allo sviluppo di
una clinica non più radicata nella ricerca scientifica come scienza esatta,
bensì basata sul consenso.”
Il rapporto di Egge con la scienza
esatta (matematica?) e la ricerca scientifica in generale deve
essere un po’ particolare, visto che buona parte del libro, nella sua pars construens, è
legata all’idea della relazione tra la persona autistica e l’Altro persecutore, che può essere una
bella immagine, ma certo non ha in sé nulla di verificabile e di esatto.
Egge quindi contesta alla radice la convinzione organogenetica dell’autismo,
come lui la chiama, che “ha fatto rientrare gli autistici nel campo
dell’handicap e non più in quello delle malattie mentali. I bambini avrebbero
perciò bisogno di un’educazione speciale di tipo comportamentale, che in molti
casi si traduce in un addestramento con l’obiettivo di farli evolvere, vale a dire sono diventati oggetti da trattare. Non sono più
considerati bambini sofferenti a livello psichico, soggetti cioè
a cui rivolgere un aiuto che vada nel senso di una soggettivazione.” (p. 25)
Qui possiamo facilmente osservare come, se
l’addestramento di un bambino autistico implicasse in quanto tale una sua
trasformazione in mero oggetto, una negazione del processo di soggettivazione,
questo dovrebbe in linea di principio essere detto di ogni
addestramento. Dunque, anche il piccolo aspirante
pianista, cui il maestro fa ripetere scale su scale, sarebbe ridotto ad
oggetto. Le cose non stanno evidentemente in questo modo, al contrario proprio
l’applicazione al bambino autistico di tecniche che gli consentano
di conquistare alcune autonomie personali vanno nel senso della sua
liberazione. Inoltre, la convinzione organogenetica non è una
convinzione, nel senso in cui
la interpreta Egge. Essa, al livello delle
attuali conoscenze, è una evidenza. Ma
Egge ha come obiettivo fondamentale non solo quello
di salvare le pratiche che si svolgono nella sua Antenna 112, ma anche quello
di difendere la weltanschauung
psicoanalitica che vi è sottesa. Per far questo, non esita a selezionare i
dati, espellendo quelli che non concordano con la sua teoria, e sorvolando
totalmente sulle recenti acquisizioni delle neuroscienze, da cui certo non
risultano grossolane malformazioni
dei cervelli delle persone autistiche, bensì evidenza chiarissima di malfunzionamento dei medesimi.
La mia tesi, che una lettura del libro di Egge conferma ampiamente, è che
l’autismo oggi rappresenti un punto debole dell’edificio che la psicoanalisi in
un secolo ha costruito, una breccia che potrebbe mettere in crisi il sistema di
credenze che la psicoanalisi come dottrina e fede è, e che proprio per questo
gli psicoanalisti oggi o si ritirano in buon ordine tacendo o, per così dire,
inglobando l’autismo in una sacca; oppure contrattaccano, ma senza avere penne
adeguate al volo, come è nel caso di Martin Egge.
Ovviamente, per Martin Egge gli approcci all’autismo si dividono in due grandi
categorie: non psicoanalitici e psicoanalitici.
Parlando dei primi, in termini liquidatori, l’autore
afferma: “Il comune denominatore di queste terapie consiste nell’applicazione
di una tecnica (di cui lo specialista è il detentore) a un oggetto da ‘curare’,
il bambino. In quest’ottica il bambino psicotico o
autistico è assimilato al disabile o al portatore di un deficit intellettivo e
nella terapia viene sottolineata la mancanza o il
difetto da eliminare, il tutto a scapito della soggettività del bambino stesso”
(p. 28)
Qui è evidente che molto si gioca sul concetto di disabilità. Se la disabilità è la
non-abilità a compiere atti fondamentali per la vita sociale e per la stessa
sopravvivenza fisica elementare dell’individuo, io conosco poche persone in
buona salute fisica più disabili di mio figlio e degli
altri bambini che frequentano l’Orto di San Francesco. E
anche il concetto di soggettività
non è così sicuro e scontato come potrebbe apparire a prima vista. Poiché ha un
retroterra filosofico, prima che psicoanalitico, estremamente
ramificato e vasto e nebuloso. Con differenze enormi tra Occidente e Oriente.
Come osserva lo psichiatra Jean-Michel Oughourlian in The Genesis of Desire
(Michigan State University Press 2010), la psicoanalisi parte da un’idea di
soggetto autonomo, esistente per sé, che è l’idea tradizionale della filosofia
classica occidentale. Ma questa idea di soggetto è un’
idea culturale, e storicamente
determinata, e non ha la natura del dato scientifico.
Egge liquida, tra gli altri, l’approccio TEACCH,
anzitutto per il fatto che in esso non si farebbe
distinzione “tra disturbi disfasici del linguaggio,
ritardo dell’acquisizione del linguaggio a causa di qualunque sindrome organica
e autismo. Tutto entra nello spettro dell’handicap” (p. 35)
E lamenta: “Dove sono andate a finire tutte le ricerche psicoanalitiche e psicodinamiche tese a isolare un
certo gruppo di bambini che possono trarre notevoli miglioramenti da un certo
trattamento o, nel caso dei bambini più piccoli o più gravi, da un lavoro
preliminare che li sostenga e li conduca verso una maggiore apertura al mondo?
Il lavoro sottile, gli sforzi per comprendere e sostenere questi bambini in
difficoltà, apparentemente chiusi in se stessi, sembra fuori moda. La risposta
moderna è pratica: si chiama addestramento”. (p. 36)
Per alcune pagine Egge
passa in rassegna i vari approcci, psicoanalitici e non, alla questione
dell’autismo, e le differenti interpretazioni del medesimo. In realtà, il punto
teorico fondamentale, sul quale il lavoro del concetto dovrebbe anzitutto fare
un’opera di pulizia, è la difficoltà di isolare un autismo puro. Il singolo soggetto autistico è sempre un
individuo che porta in sé una costellazione di deficit e di problematiche. Anzitutto un’insufficienza mentale, più o meno severa. Quella autistica è dunque una condizione di pesante
disabilità, sulla quale (e a causa della quale) possono certamente inserirsi nella
persona forme di disturbo mentale di
secondo grado, psicosi, ecc., come può essere per un cieco, in
cui l’handicap, con le difficoltà esistenziali che produce, faccia sorgere
nevrosi, ecc. La cecità determinata dall’autismo è una cecità sociale, e questo può innescare
successivi disturbi del comportamento (ma il comportamento non è cosa
totalmente altra rispetto alla mente di chi si comporta). Possiamo a tal
proposito osservare come l’attuale arretratezza generale del trattamento dei
soggetti autistici si verifichi anche nella scarsità
di studi sui comportamenti problematici delle persone con autismo in relazione
ai loro disturbi psichici specifici. Insomma: qui occorrerebbe aprire un settore
di studi sui disturbi psichici dei soggetti autistici, e non limitarsi, come
pare accada, quasi solo alle comorbilità di tipo organico. Ma
questo richiederebbe da un lato l’abbandono totale del concetto dell’autismo in
sé come forma di psicosi (cosa che la psicoanalisi ed Egge
non fanno assolutamente), dall’altro un’apertura
concettuale di coloro che pensano di poter risolvere tutto con il semplice
apprendimento, da parte dei soggetti autistici, di schemi di comportamento
socialmente accettabile. L’addestramento (training)
è molto importante per il raggiungimento di autonomie
anche elementari, ma certamente non elimina tutti i problemi delle persone con
autismo, anche di quelle con più grave ritardo mentale, che sono moltissime.
Rimarrà sempre una sfera opaca di non-comunicazione, di sofferenza, di disagio
negli autistici e nelle persone che vivono con loro. Questo aspetto, con tutto ciò che comporta, mi sembra attualmente
misconosciuto o sottovalutato.
La seconda sezione de La cura del bambino autistico si intitola
significativamente Jacques Lacan e le psicosi.
Il peccato mortale, come abbiamo già osservato, è quello dell’inscrizione dell’autismo
in quanto tale nell’ambito delle psicosi, che tra l’altro giustifica
il titolo. Infatti, Egge pensa l’autismo come cosa
infantile, e si colloca tra coloro che parlano
di quelli che furono bambini autistici come adulti psicotici. Qui è ben
evidente la radice del famoso cambio di
diagnosi che ha imperversato nel nostro paese, disorientando le
famiglie, nel passaggio tra neuropsichiatria (nascita-16 anni) e psichiatria
(16 anni -).
A pag. 61 Egge scrive:
“Finalità di ogni cura è produrre il soggetto al di là
della struttura cui egli appartiene. Cosa significa
produrre il soggetto? Ogni bambino si trova alla nascita in posizione di oggetto dell’Altro materno”. Qui mi pare di poter muovere
due obiezioni fondamentali, dal momento che Lacan e i
lacaniani usano un linguaggio para-filosofico. E la prima obiezione è di natura puramente filosofica.
Questa: un soggetto non può nascere da un non-soggetto, ma solo da ciò che, se
pure è oggetto, ha in sé già da sempre la natura di soggetto, è già un soggetto
– liminale, esordiente, in fieri,
ma soggetto. E infatti anche il neonato ha una
sua soggettività, e – seconda obiezione – la esprime con un attivismo di
esplorazione del mondo già nei primi giorni di vita, dimostrando un evidente
germe di capacità relazionale. Il considerare il bambino “a livello
strutturale” come oggetto del desiderio della madre, come per lei costituente
un'identità col fallo (per la madre fallo=bambino), e
il ritenere che “per tutti, all’inizio non c’è soggetto” se non passando
attraverso “la strada maestra chiamata Edipo” (p. 62) mostrano una rigidità
categoriale del pensiero, un suo ideologico irrigidirsi in una costruzione
a-dialettica.
La psicoanalisi ha un aspetto magico: si tratta di
un sapere rigido, costituito su una serie di mitologemi, che tuttavia riesce a
presentare un aspetto, un ad-spectum
incantatore e fluido proprio in virtù di affermazioni
dogmatiche, e di posizioni che ad un pensiero non critico possono apparire
come certezze. Se le parole hanno un senso,
proposizioni come “quando il bambino si accorge della sua totale dipendenza
dall’Altro materno e della sua impotenza, è profondamente depresso” (p. 63)
dovrebbero destare sospetto.
Che poi l’intero edificio della psicoanalisi sia ab origine segnato da un
profondo e irredimibile maschilismo è stato messo in luce da tempo. Anche nel
capitolo Jacques Lacan e le psicosi
questo maschilismo deformante è ben visibile. Quando si parla di bambino
(genere maschile, qui non si parla mai di bambina, e ciò non deriva certo dal
fatto che kind in tedesco è di genere neutro)
l’interlocutore principale, il motore di tutto, è sempre il fallo. (p. 73)
La terza parte de La
cura del bambino autistico si intitola “La
pratica à plusieurs
di Antonio Di Ciaccia”. Antonio Di Ciaccia, un seguace di Lacan, è
il fondatore a Bruxelles di una istituzione, L’Antenne
110, che si propone di applicare alla cura di autismo e psicosi infantili
la psicoanalisi nella versione lacaniana. Da questa
deriva l’Antenna 112 dello stesso Martin Egge, a Mestre.
L’idea di fondo è enunciata subito. Benché Egge rifiuti apertamente la
prospettiva di Bettelheim sull’origine dell’autismo
dal rifiuto materno, il collegamento “relazionale” tra madre e autismo è
assolutamente trasparente, anche se Egge, politicamente per così dire, evita di
calcare la mano. Ogni bambino inizia la sua vita come puro oggetto della madre, e deve
superare una serie di tappe per conseguire lo status di soggetto. Ma un ostacolo può interrompere il cammino, e avviene un
blocco. È “un blocco che si riferisce al loro vissuto rispetto al rapporto
con l’Altro, costituito dapprima dalla madre e dal padre e successivamente,
più in generale, dal mondo esterno” (p. 90). Il bambino autistico nel suo
rapporto duale con l’Altro vede questo come Persecutore. Avverte sé come
oggetto di un Altro soverchiante, e allora la cura starà nel costruire per questo bambino una alterità plurima, regolata e soggetta anch’essa ad una
legge, tale che il bambino possa sentirsi non più minacciato ma garantito.
Questa è l’idea centrale su cui tutto il discorso di Egge è imperniato.
“Possiamo concludere che la
causalità dell’autismo è senz’altro legata alla mancanza di un aggancio
simbolico del bambino al suo Altro, sia perché il bambino è preso come oggetto
dell’Altro, cosa che per esempio è molto evidente nel caso di un bambino con
una madre psicotica, sia perché il bambino non riesce, nonostante l’offerta dei
genitori che per lui rimane enigmatica e opaca, a uscire dal suo stato
d’oggetto.” (pp. 96-97) Ma le madri psicotiche di
bambini autistici sono un numero ridottissimo, e i bambini autistici nascono
quasi tutti da famiglie normalissime, che hanno spesso altri figli
perfettamente sani. Nella prospettiva di Egge, tralasciata ogni eziologia organicistica,
il sorgere dell’autismo rimane, alla fine, inspiegabile.
Egge presenta la posizione di Lacan
sulla causa dell’autismo come “più prudente” di quella di Bettelheim,
che la riferisce ai genitori concreti. Secondo Egge, Lacan supera la concretezza dei genitori in carne e ossa, e
considera “il modo in cui il bambino è preso a livello fantasmatico
dal genitore” (p. 142). La citazione di un passaggio da “Due note sul bambino”
dello stesso Lacan chiarifica definitivamente quale sia la visione dell’origine dell’autismo che sorregge tutta
la pratica clinica di Egge.
“L’articolazione si riduce di molto
quando il sintomo che giunge a dominare è di pertinenza della
soggettività della madre. In questo caso il bambino è interessato direttamente
in quanto correlativo di un fantasma. La distanza tra l’identificazione con
l’ideale dell’io e la parte presa dal desiderio della madre, se non ha alcuna
mediazione (quella che assicura normalmente la funzione del padre) lascia il
bambino aperto ad ogni presa fantasmatica. Egli
diventa ‘l’oggetto’ della madre, e non ha altra
funzione che di rivelare la verità di questo oggetto”
(p. 143). Dunque, si ritorna sempre allo stesso punto: se il bambino autistico
non è divenuto un soggetto, ciò è in relazione alla
madre e al suo desiderio. Siamo, in un certo senso, tra mitologia e magia.
Che poi tutto il testo sia
percorso da una con-fusione dell’autismo nella psicosi è evidenziato dai
casi di Mario e Ludovico, presentati alle pp. 115-116 come esempi della
differenza tra bambino autistico e bambino psicotico: il lettore non riesce a
distinguere affatto quella differenza, che del resto non è garantita dal quadro
teorico generale, per cui nell’autismo “si tratta di una difesa precoce
all’interno di un quadro psicotico” (p. 116).
È del tutto evidente come all’Antenna 112 si utilizzino pratiche che corrispondono, in un certo modo, a
quelle tipiche di un quadro cognitivo-comportamentale, ma entro una cornice
interpretativa completamente differente. Ad esempio, la prevedibilità, che è un principio ben
noto, derivante dalle difficoltà del cervello autistico a
elaborare il flusso dei dati del mondo reale, viene da Egge
riferita al bisogno di dissolvere l’angoscia legata all’onnipotenza dell’Altro
(persecutore): la prevedibilità è quella che promana da una Legge a cui tutti
sono sottomessi, e che quindi fa degli altri altri regolati, garanti del soggetto.
Anche quelli che comunemente sono intesi oggi come
problemi sensoriali, dovuti a disturbi di natura neurobiologica, sono visti da Egge come causati dalla minaccia dell’Altro. La voce che
infastidisce l’autistico è la voce non
regolata, espressione di una potenza minacciosa dell’Altro.
Ovviamente, anche i momenti di autolesionismo dei
soggetti autistici sono aggressioni di un Altro persecutore. Quindi,
quando Arianna si stringe la gola, è l’Altro che vuole strangolarla. E cosa fanno all’Antenna 112? Si mettono ad urlare contro
l’Altro. “…facciamo delle scenate terribili all’Altro persecutore e alle sue
mani che vogliono strangolare Arianna, gridiamo dimostrando il nostro furore
contro di lui e mantenendoci nella posizione di garante. Urliamo
l’inaccettabile in modo che il soggetto cominci a ‘ex-sistere’,
a esistere al di fuori dell’Altro. In cosa consiste il
nostro lavoro? Nel fare il modo che il soggetto si eriga, stia in piedi nei
confronti dell’Altro, attraverso la nostra manovra contro l’Altro.” (p. 132)
Tutti coloro che desiderino
mantenere l’interpretazione e il trattamento dell’autismo nel quadro
concettuale dominante fino a qualche anno fa, quando i manicomi erano pieni di
persone con autismo non diagnosticato, interpretato come schizofrenia o psicosi
di varia natura, troveranno nel libro di Egge un
valido sostegno.
L’ultima parte del libro di Martin
Egge si intitola Dalla parte degli autistici, e consiste
in una disamina di tre casi celebri di autistici resi famosi dai libri che essi
stessi hanno scritto. Sono Birger Sellin, Donna Williams e Temple Grandin. Non è un caso che l’attenzione e lo spazio
maggiori siano da Egge dedicati a Birger
Sellin, che ha scritto Prigioniero di me stesso utilizzando la tecnica della comunicazione facilitata, che, come
abbiamo mostrato
qui e qui,
è priva di alcun fondamento e sostanzialmente menzognera.
Ora sappiamo bene che il pensiero che passa nel computer e circola poi come
prodotto da una mente autistica è essenzialmente il pensiero del facilitatore,
colui che siede accanto alla persona con autismo, e
senza la cui assistenza e presenza fisica la persona autistica non scriverebbe
nulla o quasi nulla. Ma non è un caso che Birger
Sellin sia il più interessante dei tre per Egge, seguito da Donna Williams, che subì gravi
maltrattamenti dalla madre, mentre Temple Grandin, mente scientifica e sostenitrice di una visione
comportamentale, viene per ultima. Si tratta sempre della difesa dei mitologemi
psicoanalitici, liquido amniotico da cui quelli come Egge
sono incapaci di fuoriuscire. La comunicazione facilitata non ha retto ad
alcuna verifica rigorosa. Ma questo ad Egge non
interessa, e il perché è reso palese a pag. 157: “Troviamo qui una somiglianza
tra la funzione dell’analista di fronte allo psicotico e quella del facilitatore con l’autistico, che, con la sua presenza
fisica, deve limitarsi ad assisterlo nello sviluppo del suo pensiero”.
Citando un testo del 1996 (un po’ vecchiotto per la questione), Egge afferma che “la comunicazione facilitata ci aiuta a
comprendere la psicodinamica dell’autismo precoce permettendo così di
avvicinarlo alle altre psicosi e confermando le teorie piscoanalitiche
elaborate su di esse.” (p.
159)
Concludo questa critica de La cura del bambino autistico con una perla (nera) egghiana che si può gustare a pag. 193. “Come tutti [corsivo mio] gli
autistici Temple ha sempre odiato essere toccata e
abbracciata sebbene desiderasse la sensazione positiva
di una pressione sul suo corpo”. Tutti gli autistici? Ma
questo è un luogo comune, come quello secondo cui i bambini autistici rifuggono
dal contatto oculare. Molti lo fanno, ma alcuni no, e nondimeno sono autistici.
Mio figlio, ad esempio, ha sempre amato moltissimo il contatto
fisico, e guardato negli occhi la gente. Ma è sempre
stato un autistico grave, e non è il solo.
Dunque, se volete vedere quanto pervasiva e
disturbante sia la psicoanalisi, e quanto abbia intralciato e intralci un positivo approccio all’autismo nelle sue varie forme,
leggete con attenzione il libro di Martin Egge.